La Corte di Cassazione – con sentenza del 10.01.2017, n. 284 – è intervenuta in merito ai periodi di malattia da considerare utili ai fini del calcolo del comporto, precisando che se il lavoratore è in ferie ed invia in azienda un certificato di malattia, tale periodo di ferie viene commutato in malattia e conseguentemente diviene utile ai fini del calcolo della conservazione del posto. Pertanto il dipendente che, assente dal lavoro per ferie, invia il certificato medico all’azienda a seguito di malattia contratta proprio mentre era in vacanza, manifesta tacitamente l’intenzione di far convertire tale periodo da «ferie» in «malattia». In altre parole, le ferie vengono sospese e riprenderanno a decorrere quando sarà guarito. Ma attenzione: se l’assenza poi si protrae oltre il periodo massimo fissato dal contratto collettivo (cosiddetto periodo di comporto), egli può essere licenziato.
Il comportamento del lavoratore su descritto integrerebbe, secondo la Suprema Corte, la volontà di far convertire in malattia la ragione della sua assenza dal servizio, anche se manca una comunicazione esplicita in tal senso. È infatti l’invio della suddetta documentazione medica a parlare chiaro, posto peraltro il diritto del dipendente di sospendere le ferie se, durante esse, contrae un malanno che gli avrebbe dato il diritto ad assentarsi dal lavoro. Questo principio scaturisce dall’intangibilità del riposo, necessario affinché il prestatore di lavoro possa recuperare le energie psicofisiche. Dunque, in caso di malattia sopraggiunta, le ferie possono essere sospese. Da ció scaturisce quindi che il datore di lavoro deve essere reso edotto di tale circostanza e ciò può avvenire o con una dichiarazione espressa, contenente il certificato medico, oppure solo con l’invio di quest’ultimo, sufficiente a far comprendere l’intenzione del lavoratore di mutare il titolo della sua assenza. Il lavoratore che comunica la malattia durante il periodo di ferie dovrà peró stare attento che i giorni di malattia non superino il limite massimo previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria, limite oltre il quale scatta il cosiddetto licenziamento per superamento del periodo di comporto.
La corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 475/17 ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice di Napoli, il cui rapporto di lavoro è cessato dopo la nascita della figlia e prima che quest’ultima compisse il suo primo anno di vita.
La stessa Corte ha ricordato che, in questa delicata fase della vita di una madre, soltanto la colpa grave può giustificare il licenziamento. In caso contrario il datore di lavoro commette un abuso ed il licenziamento è da ritenersi illegittimo: “gli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità sono costanti nell’affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell’art. 2 della legge 1204/71; per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (Cass., nn. 18357/04; 24349/10)“.
Secondo il testo della sentenza inoltre il giudice di merito avrebbe erroneamente applicato l’art. 8 della l. n. 604/66, poiché la disciplina legislativa di cui al Decreto Legislativo n. 151/01 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604/66 e 300/70; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 151/01 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva, quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice.
Testo della sentenza
Corte di Cassazione Sezione Lavoro
Sentenza 26 gennaio 2016 – 11 gennaio 2017, n. 475
Presidente Napoletano – Relatore Leo
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza depositata il 1/2/2013, accogliendo l’appello proposto da S.I.R. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato alla medesima S. il 14/1/2006 e, per l’effetto, ordinava alla società R. S.p.A. di riassumere la lavoratrice o, in mancanza, di risarcirle il danno commisurato in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi dalla maturazione del diritto al saldo.
Per la cassazione della sentenza la S. propone ricorso articolato in due motivi. La R. resiste con controricorso e propone altresì ricorso incidentale, cui resiste la S. che ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 54, commi 1 e 5 del D.lg.vo 26/3/2001, n. 151 e 8 della legge n. 604/66, avendo la sentenza impugnata omesso di prendere in considerazione che la S. si trovasse, al momento del licenziamento, in regime di puerperio, dato che la figlia, da essa partorita il 22/6/2005, il 14/1/2006, data del licenziamento, non aveva ancora compiuto un anno di età.
2. Con il secondo motivo viene denunziata, in relazione all’ars. 360, n. 3, la violazione dell’ars. 54 del d. lg.vo 26/3/2001, n. 151 e dell’art. 1223 c.c. e si lamenta che la sentenza oggetto del giudizio di legittimità abbia violato l’art. 1223 c.c., non avendo accolto la domanda della ricorrente di risarcimento dei danni da liquidare nella misura della retribuzione globale di fatto che la lavoratrice non ha percepito dal 14/1/2006, data del licenziamento, a quella della effettiva riammissione in servizio.
3. I motivi del ricorso principale, da esaminare congiuntamente, data l’evidente connessione, sono fondati. La Corte di merito, infatti, ha del tutto obliterato la motivazione in ordine alla circostanza che, per i motivi esposti in narrativa, la S., al momento del licenziamento, si trovasse nel periodo di puerperio, nonostante la lavoratrice avesse dedotto e documentato la detta circostanza. Al riguardo, gli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità sono costanti nell’affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell’art. 2 della legge 1204/71; per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (tra le molte, Cass., nn. 18357/04; 24349/10). In materia, il Giudice delle Leggi ha stabilito (sentenza n. 61/9 1) che la violazione dell’art. 2 della legge n. 1204/71 (ora d.lg.vo n. 151 /01) è totalmente improduttivo di effetti comportando la nullità del licenziamento comminato alla donna durante la gestazione o il puerperio. La Corte di merito ha erroneamente applicato l’art. 8 della i. n. 604/66, poiché la disciplina legislativa di cui al D.lg.vo n. 151/01 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604/66 e 300/70; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del D.lg.vo n. 151/01 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva, quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice. Il rapporto, nel caso di specie, va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio (tra le molte, Cass. n. 2244/06). La sentenza di secondo grave ha, invece, erroneamente ritenuto applicabile, ai fini del risarcimento, anziché l’art. 1223 c.c. l’art. 8 della legge n. 604/66.
4. Con il ricorso incidentale la società lamenta l’errata applicazione della normativa sul licenziamento di cui all’ars. 7 L. 330/70 e 54 del D.lg.vo n. 151/01. Tale ricorso non può essere accolto per i motivi esplicitati nelle argomentazioni sub 3.
5. La sentenza va pertanto cassata, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà a tutti i principi innanzi affermati, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c..
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, relativamente al ricorso accolto e per la decisione sulle spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.