Archivio dei tag datore di lavoro

DiAvv. Luciano Mottola

Buoni pasto: le novità introdotte dal decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 7 giugno 2017, n. 122 – in attuazione dell’articolo 144, comma 5, del D.Lgs 50/2016

Con decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 7 giugno 2017, n. 122 – in attuazione dell’articolo 144, comma 5, del D.Lgs 50/2016 – sono stati individuati:

  • gli esercizi commerciali presso i quali potrà essere erogato il servizio sostitutivo di mensa reso attraverso i buoni pasto;

  • le caratteristiche dei cosiddetti buoni pasto;

  • il contenuto degli accordi stipulati tra le società di emissione di buoni pasto e i titolari degli esercizi convenzionabili.

L’aspetto più innovativo del decreto consiste nel fatto che dal 9 settembre 2017, data di entrata in vigore del provvedimento, si potranno utilizzare fino ad otto buoni pasto nell’ambito della stessa spesa.

L’emissione dei buoni potrà essere prevista in favore dei prestatori di lavoro subordinato, sia per quelli a tempo pieno sia part-time, anche nel caso in cui l’orario di lavoro non stabilisca una pausa per il pasto, nonché per coloro che a vario titolo hanno intrapreso un rapporto di collaborazione anche non subordinato.

I buoni, nominativi, non potranno essere ceduti a terzi, anche se si tratta di familiari o parenti e potrà acquistarvi alimentari e bevande e non beni differenti da quelli commestibili.

I buoni – il cui valore sarà comprensivo dell’Iva prevista per le somministrazioni al pubblico di alimenti e bevande – potranno essere utilizzati non solo presso le mense aziendali ed interaziendali, i supermercati o i bar, ma anche in agriturismi, nei mercati e negli ittiturismi. Gli stessi dovranno essere utilizzati esclusivamente per «l’intero valore facciale» pertanto non daranno diritto al resto.

Gli stessi buoni potranno essere richiesti in due modalità: quella cartacea e quella elettronica.

I buoni pasto emessi in forma cartacea dovranno riportare – oltre al codice fiscale o alla ragione sociale del datore di lavoro, alla ragione sociale e il codice fiscale della società di emissione, al valore facciale espresso in valuta corrente, al termine ultimo di utilizzo e ad uno spazio destinato all’apposizione della data di utilizzo, della firma del titolare e del timbro dell’esercizio convenzionato ove il buono viene utilizzato – anche la seguente dicitura: «il buono pasto non è cedibile, né cumulabile oltre il limite di otto buoni, né commercializzabile o convertibile in denaro; può essere utilizzato solo se datato e sottoscritto dal titolare».

Le medesime indicazioni saranno riportate anche sui buoni pasto emessi in forma elettronica attraverso un’associazione elettronica sul relativo carnet elettronico ed il titolare del buono apporrà la firma in via digitale al momento dell’utilizzo.

 

DiAvv. Luciano Mottola

Cassazione: Licenziamento nel periodo di Apprendistato: valgono le stesse regole del rapporto di lavoro a tempo indeterminato

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 13 luglio 2017, n. 17373 ha stabilito che al licenziamento intercorso durante il periodo di apprendistato si applica la disciplina del contratto a tempo indeterminato.

Nelle sue argomentazioni la Corte ha precisato che il contratto di apprendistato infatti, pur nel regime normativo di cui alla Legge 25/1955, è un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bi-fasico, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge, con funzione specializzante, lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre la seconda fase – soltanto eventuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2118 C.C. — rientra nell’ordinario assetto del rapporto di lavoro subordinato.

Tale qualificazione non è peraltro contraddetta dall’articolo 7 della Legge 25/1955 — a tenore del quale l’apprendistato non può avere una durata superiore a quella stabilita dai contratti collettivi di lavoro e, comunque, a cinque anni — giacché il termine finale della formazione professionale non identifica un termine di scadenza del contratto, ma un termine di fase all’esito del quale, in assenza di disdetta, il rapporto (unico) continua con la causa tipica del lavoro subordinato.

Altra informazione rilevante è che le sentenze additive di accoglimento della Corte Costituzionale del 28 novembre 1973, n. 169 e del 4 febbraio 1970, n. 14 hanno poi imposto l’estensione dell’intero corpus di norme di cui alla Legge 604/1966 al contratto di apprendistato, proprio sul presupposto della sua assimilabilità all’ordinario rapporto di lavoro.

Peraltro, gli effetti derivanti dalla illegittimità del licenziamento (con disciplina applicabile anche all’apprendistato) sono da valutarsi secondo un regime sostitutivo e non alternativo rispetto a quello comune dell’inadempimento contrattuale.

 

DiAvv. Luciano Mottola

Cassazione, Sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2142: elementi costitutivi del Mobbing

La corte di Cassazione, con  sentenza  numero 2142/2017, ha chiarito ancora una volta il concetto di mobbing e degli elementi che contraddistinguono tale illecito.

Gli ermellini hanno affermato che, ai fini della configurazione del mobbing sono necessari alcuni elementi qualificanti come di seguito descritti:

1) che la vittima subisca da parte del datore di lavoro, di un suo preposto o di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi una serie di comportamenti persecutori, sistematici e prolungati nel tempo, sia illeciti che singolarmente leciti.

2) Il secondo elemento costitutivo del mobbing è rappresentato dalla lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente.

3) E’ poi necessario un nesso eziologico tra le condotte sopra descritte e il pregiudizio all’integrità psico-fisica e/o alla dignità della vittima.

4)Infine, il mobbing richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo, ovverosia dell’intento persecutorio che unifica di tutti i comportamenti lesivi.

La sentenza in oggetto riguarda un’azione di risarcimento danni per mobbing, avanzata da un Vigile urbano al quale erano stati assegnati , dal Comune presso cui era impiegato, compiti esecutivi,estremamente semplici, non riconducibili nell’alveo della qualifica rivestita, che di fatto avevano comportato lo svuotamento delle mansioni. Il Vigile era stato anche lasciato inattivo ed isolato per lungo tempo, senza una scrivania nè un ufficio, costretto stare in piedi in un corridoio fino a quando non venne assegnato allo svolgimento “di pratiche cimiteriali” ed accompagnato all’entrata del cimitero municipale ove gli veniva detto che “quella era la sua sede di lavoro”.

Le testimonianze rese nel corso del giudizio hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un comprovato danno biologico. Rileva anche, il comportamento degli colleghi della vittima “che allontanano il soggetto scomodo temendo, a loro volta, di essere oggetto di ritorsione.

E’ stata confermata, pertanto,  la sentenza della Corte territoriale che ha ritenuto che “la sistematica esposizione del lavoratore ad atti vessatori con azione volta alla negazione stessa dell’individuo e della sua autostima, aveva provocato l’insorgere di una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno all’immagine e alla professionalità, pure derivanti dal demansionamento e dalla complessiva azione dell’amministrazione, che nell’insieme aveva assunto i caratteri del mobbing per la analitica motivazione in ordine alle risultanze della c.t.u. medico-legale e alla percentuale del danno biologico, nonché per il nesso tra comportamento mobbizzante e ulteriori danni non patrimoniali connessi alla lesione dell’immagine e della professionalità”.

Di seguito la sentenza

Sentenza-27.01.2017-n.-2142-Corte-di-Cassazione-Sez.-lavoro

 

DiAvv. Luciano Mottola

Malattia e amianto: per la Cassazione è sufficiente la probabilità

La Corte di cassazione, con la sentenza 19270/2017 si è pronunciata, sulla risarcibilità dei danni per patologie amianto-correlate, affermando il seguente principio:“sussiste la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che risulti, in base al principio «del più probabile che non», che sia stata l’esposizione ad amianto sul luogo di lavoro (e, nel caso specifico, ad altri agenti chimici utilizzati per la lavorazione del vetro) a causare l’insorgenza della malattia, seppur in presenza di altre possibili concause, quali il fumo di sigaretta o pregresse patologie polmonari del dipendente trattate con farmaci sospetti cancerogeni”.

Il caso trae origine dai ricorsi di due società succedutesi nel tempo nella titolarità dello stabilimento produttivo presso cui il dipendente (ormai deceduto al momento della sentenza) ha lavorato per oltre 25 anni, entrambe soccombenti nei precedenti gradi di giudizio e condannate al pagamento dei danni agli eredi.

Le società ricorrenti hanno impugnato il provvedimento d’appello lamentando la mancata applicazione del cosiddetto metodo scientifico nel valutare l’esistenza di un nesso di causa, avendo i giudici di merito ragionato in termini di “elevata probabilità logica” e, dunque, con un criterio non scevro da valutazioni, piuttosto che affidarsi alla “probabilità statistica”.

La Cassazione ha affermato che, qualora le leggi scientifiche non consentano un’assoluta certezza della derivazione causale, la regola di giudizio deve essere quella della preponderanza dell’evidenza o criterio “del più probabile che non”, che va verificato non in base a una probabilità solo statistico quantitativa dell’evento quanto in ragione di una probabilità logica, “riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto”.

Lle Sezioni unite avevano già chiarito tale principio (sent. 576/2008), ma in una vicenda (danni da trasfusioni di sangue infetto) in cui non vi era evidenza di possibili concause.

Nel caso in esame, essendo stati provati:
– il costante uso, sul lavoro, di ben due agenti patogeni (amianto e un altro) e la loro idoneità a causare l’insorgenza della malattia,
– la mancata adozione delle cautele all’epoca note, quali aspiratori e specifiche operazioni di pulizia dalle polveri,
la Corte ha concluso approvando l’accertamento dei giudici di merito circa la sussistenza della responsabilità dei datori, non reputando decisiva la presenza di possibili altre cause.

Per la Corte, inoltre, non era necessario che i datori potessero prevedere l’insorgere della malattia, essendo invece sufficiente la prevedibilità di un «generico verificarsi di un danno alla salute del lavoratore». Sebbene l’amianto sia stato vietato solo nei primi anni ’90, il rischio derivante dalla formazione e diffuone da polveri era noto almeno sin dal 1956 (anno in cui venne promulgato il Dpr 303) e, in ogni caso, il rischio specifico derivante dall’amianto risultava legislativamente recepito dal Dpr 1124/1965.

sent 19270 del 2017