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DiAvv. Luciano Mottola

Malattia e amianto: per la Cassazione è sufficiente la probabilità

La Corte di cassazione, con la sentenza 19270/2017 si è pronunciata, sulla risarcibilità dei danni per patologie amianto-correlate, affermando il seguente principio:“sussiste la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che risulti, in base al principio «del più probabile che non», che sia stata l’esposizione ad amianto sul luogo di lavoro (e, nel caso specifico, ad altri agenti chimici utilizzati per la lavorazione del vetro) a causare l’insorgenza della malattia, seppur in presenza di altre possibili concause, quali il fumo di sigaretta o pregresse patologie polmonari del dipendente trattate con farmaci sospetti cancerogeni”.

Il caso trae origine dai ricorsi di due società succedutesi nel tempo nella titolarità dello stabilimento produttivo presso cui il dipendente (ormai deceduto al momento della sentenza) ha lavorato per oltre 25 anni, entrambe soccombenti nei precedenti gradi di giudizio e condannate al pagamento dei danni agli eredi.

Le società ricorrenti hanno impugnato il provvedimento d’appello lamentando la mancata applicazione del cosiddetto metodo scientifico nel valutare l’esistenza di un nesso di causa, avendo i giudici di merito ragionato in termini di “elevata probabilità logica” e, dunque, con un criterio non scevro da valutazioni, piuttosto che affidarsi alla “probabilità statistica”.

La Cassazione ha affermato che, qualora le leggi scientifiche non consentano un’assoluta certezza della derivazione causale, la regola di giudizio deve essere quella della preponderanza dell’evidenza o criterio “del più probabile che non”, che va verificato non in base a una probabilità solo statistico quantitativa dell’evento quanto in ragione di una probabilità logica, “riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto”.

Lle Sezioni unite avevano già chiarito tale principio (sent. 576/2008), ma in una vicenda (danni da trasfusioni di sangue infetto) in cui non vi era evidenza di possibili concause.

Nel caso in esame, essendo stati provati:
– il costante uso, sul lavoro, di ben due agenti patogeni (amianto e un altro) e la loro idoneità a causare l’insorgenza della malattia,
– la mancata adozione delle cautele all’epoca note, quali aspiratori e specifiche operazioni di pulizia dalle polveri,
la Corte ha concluso approvando l’accertamento dei giudici di merito circa la sussistenza della responsabilità dei datori, non reputando decisiva la presenza di possibili altre cause.

Per la Corte, inoltre, non era necessario che i datori potessero prevedere l’insorgere della malattia, essendo invece sufficiente la prevedibilità di un «generico verificarsi di un danno alla salute del lavoratore». Sebbene l’amianto sia stato vietato solo nei primi anni ’90, il rischio derivante dalla formazione e diffuone da polveri era noto almeno sin dal 1956 (anno in cui venne promulgato il Dpr 303) e, in ogni caso, il rischio specifico derivante dall’amianto risultava legislativamente recepito dal Dpr 1124/1965.

sent 19270 del 2017

 

DiAvv. Luciano Mottola

Cassazione: il lavoratore che invia certificato medico durante il periodo di ferie converte quest’ultimo in malattia ed i giorni di convalescenza sono utili ai fini del calcolo del superamento del periodo di comporto

La Corte di Cassazione – con sentenza del 10.01.2017, n. 284 – è intervenuta in merito ai periodi di malattia da considerare utili ai fini del calcolo del comporto, precisando che se il lavoratore è in ferie ed invia in azienda un certificato di malattia, tale periodo di ferie viene commutato in malattia e conseguentemente diviene utile ai fini del calcolo della conservazione del posto. Pertanto il dipendente che, assente dal lavoro per ferie, invia il certificato medico all’azienda a seguito di malattia contratta proprio mentre era in vacanza, manifesta tacitamente l’intenzione di far convertire tale periodo da «ferie» in «malattia». In altre parole, le ferie vengono sospese e riprenderanno a decorrere quando sarà guarito. Ma attenzione: se l’assenza poi si protrae oltre il periodo massimo fissato dal contratto collettivo (cosiddetto periodo di comporto), egli può essere licenziato.

Il comportamento del lavoratore su descritto integrerebbe, secondo la Suprema Corte, la volontà di far convertire in malattia la ragione della sua assenza dal servizio, anche se manca una comunicazione esplicita in tal senso. È infatti l’invio della suddetta documentazione medica a parlare chiaro, posto peraltro il diritto del dipendente di sospendere le ferie se, durante esse, contrae un malanno che gli avrebbe dato il diritto ad assentarsi dal lavoro. Questo principio scaturisce dall’intangibilità del riposo, necessario affinché il prestatore di lavoro possa recuperare le energie psicofisiche. Dunque, in caso di malattia sopraggiunta, le ferie possono essere sospese. Da ció scaturisce quindi che il datore di lavoro deve essere reso edotto di tale circostanza e ciò può avvenire o con una dichiarazione espressa, contenente il certificato medico, oppure solo con l’invio di quest’ultimo, sufficiente a far comprendere l’intenzione del lavoratore di mutare il titolo della sua assenza. Il lavoratore che comunica la malattia durante il periodo di ferie dovrà peró stare attento che i giorni di malattia non superino il limite massimo previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria, limite oltre il quale scatta il cosiddetto licenziamento per superamento del periodo di comporto.