Gli ermellini hanno affermato che, ai fini della configurazione del mobbing sono necessari alcuni elementi qualificanti come di seguito descritti:
1) che la vittima subisca da parte del datore di lavoro, di un suo preposto o di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi una serie di comportamenti persecutori, sistematici e prolungati nel tempo, sia illeciti che singolarmente leciti.
2) Il secondo elemento costitutivo del mobbing è rappresentato dalla lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente.
3) E’ poi necessario un nesso eziologico tra le condotte sopra descritte e il pregiudizio all’integrità psico-fisica e/o alla dignità della vittima.
4)Infine, il mobbing richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo, ovverosia dell’intento persecutorio che unifica di tutti i comportamenti lesivi.
La sentenza in oggetto riguarda un’azione di risarcimento danni per mobbing, avanzata da un Vigile urbano al quale erano stati assegnati , dal Comune presso cui era impiegato, compiti esecutivi,estremamente semplici, non riconducibili nell’alveo della qualifica rivestita, che di fatto avevano comportato lo svuotamento delle mansioni. Il Vigile era stato anche lasciato inattivo ed isolato per lungo tempo, senza una scrivania nè un ufficio, costretto stare in piedi in un corridoio fino a quando non venne assegnato allo svolgimento “di pratiche cimiteriali” ed accompagnato all’entrata del cimitero municipale ove gli veniva detto che “quella era la sua sede di lavoro”.
Le testimonianze rese nel corso del giudizio hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un comprovato danno biologico. Rileva anche, il comportamento degli colleghi della vittima “che allontanano il soggetto scomodo temendo, a loro volta, di essere oggetto di ritorsione.
E’ stata confermata, pertanto, la sentenza della Corte territoriale che ha ritenuto che “la sistematica esposizione del lavoratore ad atti vessatori con azione volta alla negazione stessa dell’individuo e della sua autostima, aveva provocato l’insorgere di una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno all’immagine e alla professionalità, pure derivanti dal demansionamento e dalla complessiva azione dell’amministrazione, che nell’insieme aveva assunto i caratteri del mobbing per la analitica motivazione in ordine alle risultanze della c.t.u. medico-legale e alla percentuale del danno biologico, nonché per il nesso tra comportamento mobbizzante e ulteriori danni non patrimoniali connessi alla lesione dell’immagine e della professionalità”.
Di seguito la sentenza
Sentenza-27.01.2017-n.-2142-Corte-di-Cassazione-Sez.-lavoro
La corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 475/17 ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice di Napoli, il cui rapporto di lavoro è cessato dopo la nascita della figlia e prima che quest’ultima compisse il suo primo anno di vita.
La stessa Corte ha ricordato che, in questa delicata fase della vita di una madre, soltanto la colpa grave può giustificare il licenziamento. In caso contrario il datore di lavoro commette un abuso ed il licenziamento è da ritenersi illegittimo: “gli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità sono costanti nell’affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell’art. 2 della legge 1204/71; per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (Cass., nn. 18357/04; 24349/10)“.
Secondo il testo della sentenza inoltre il giudice di merito avrebbe erroneamente applicato l’art. 8 della l. n. 604/66, poiché la disciplina legislativa di cui al Decreto Legislativo n. 151/01 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604/66 e 300/70; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 151/01 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva, quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice.
Testo della sentenza
Corte di Cassazione Sezione Lavoro
Sentenza 26 gennaio 2016 – 11 gennaio 2017, n. 475
Presidente Napoletano – Relatore Leo
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza depositata il 1/2/2013, accogliendo l’appello proposto da S.I.R. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato alla medesima S. il 14/1/2006 e, per l’effetto, ordinava alla società R. S.p.A. di riassumere la lavoratrice o, in mancanza, di risarcirle il danno commisurato in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi dalla maturazione del diritto al saldo.
Per la cassazione della sentenza la S. propone ricorso articolato in due motivi. La R. resiste con controricorso e propone altresì ricorso incidentale, cui resiste la S. che ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 54, commi 1 e 5 del D.lg.vo 26/3/2001, n. 151 e 8 della legge n. 604/66, avendo la sentenza impugnata omesso di prendere in considerazione che la S. si trovasse, al momento del licenziamento, in regime di puerperio, dato che la figlia, da essa partorita il 22/6/2005, il 14/1/2006, data del licenziamento, non aveva ancora compiuto un anno di età.
2. Con il secondo motivo viene denunziata, in relazione all’ars. 360, n. 3, la violazione dell’ars. 54 del d. lg.vo 26/3/2001, n. 151 e dell’art. 1223 c.c. e si lamenta che la sentenza oggetto del giudizio di legittimità abbia violato l’art. 1223 c.c., non avendo accolto la domanda della ricorrente di risarcimento dei danni da liquidare nella misura della retribuzione globale di fatto che la lavoratrice non ha percepito dal 14/1/2006, data del licenziamento, a quella della effettiva riammissione in servizio.
3. I motivi del ricorso principale, da esaminare congiuntamente, data l’evidente connessione, sono fondati. La Corte di merito, infatti, ha del tutto obliterato la motivazione in ordine alla circostanza che, per i motivi esposti in narrativa, la S., al momento del licenziamento, si trovasse nel periodo di puerperio, nonostante la lavoratrice avesse dedotto e documentato la detta circostanza. Al riguardo, gli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità sono costanti nell’affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell’art. 2 della legge 1204/71; per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (tra le molte, Cass., nn. 18357/04; 24349/10). In materia, il Giudice delle Leggi ha stabilito (sentenza n. 61/9 1) che la violazione dell’art. 2 della legge n. 1204/71 (ora d.lg.vo n. 151 /01) è totalmente improduttivo di effetti comportando la nullità del licenziamento comminato alla donna durante la gestazione o il puerperio. La Corte di merito ha erroneamente applicato l’art. 8 della i. n. 604/66, poiché la disciplina legislativa di cui al D.lg.vo n. 151/01 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604/66 e 300/70; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del D.lg.vo n. 151/01 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva, quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice. Il rapporto, nel caso di specie, va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio (tra le molte, Cass. n. 2244/06). La sentenza di secondo grave ha, invece, erroneamente ritenuto applicabile, ai fini del risarcimento, anziché l’art. 1223 c.c. l’art. 8 della legge n. 604/66.
4. Con il ricorso incidentale la società lamenta l’errata applicazione della normativa sul licenziamento di cui all’ars. 7 L. 330/70 e 54 del D.lg.vo n. 151/01. Tale ricorso non può essere accolto per i motivi esplicitati nelle argomentazioni sub 3.
5. La sentenza va pertanto cassata, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà a tutti i principi innanzi affermati, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c..
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, relativamente al ricorso accolto e per la decisione sulle spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.